Palamito… Agguato sul fondo!
Il palamito è uno degli attrezzi più antichi e più utilizzati dagli operatori della piccola pesca.
Presenta caratteristiche diverse a seconda della zona in cui viene impiegato.
Chiamato anche “palangaro”, “conzo”, “coffa” o “catalana” (nome che deriva dall’indicazione geografica) questo attrezzo è stato tramandato verbalmente dai pescatori che nei secoli ne hanno fatto la loro risorsa e il loro mestiere.
Oggi è molto diffuso anche tra i pescatori sportivi che, regolamentati dal DM 26 luglio 1998, non possono “calare” in mare più di 200 ami. Benché sia un attrezzo delicato permette una resa elevata in quantità, ma soprattutto in qualità.
In alcune zone la pesca col palangaro dà risultati più che soddisfacenti per far vivere e prosperare l’impresa di pesca, in altre, quelle soprattutto dove si ha presenza di altri tipi di pesca, il rendimento è scarso.
In generale comunque la pesca col palangaro è una pesca che si effettua con limitati consumi energetici ed è molto rispettosa delle risorse che si stanno sfruttando.
E’, infatti, un metodo di pesca fortemente selettivo.
Il palangaro può essere paragonato ad un lunghissimo bolentino, armato con molti ami ed adagiato orizzontalmente sia sul fondo del mare, secondo modalità che dipendono dalle specie insidiate, che a pochi metri al di sotto dalla superficie del mare per la pesca delle specie pelagiche.
I palangari di superficie vengono lasciati alla deriva e se molto lunghi (come quelli per la pesca al tonno, costituiti anche da 15.000 ami distribuiti lungo molti chilometri), vengono seguiti con i satelliti o con il radar.
Quelli di fondo sono fissati al substrato mediante degli opportuni piombi o zavorre.
Il palangaro può essere distinto in quattro parti:
– una sagola o lenza madre principale, su cui sono posizionati gli ami mediante fili di nylon, chiamati “braccioli“;
– i “braccioli” di diametro inferiore a quelli della lenza madre;
– una serie di sagole su cui ad una estremità è fissato un galleggiante per l’individuazione in superficie del palangaro stesso ed una zavorra per tenere la lenza madre sul fondo;
– un recipiente in cui sistemare la lenza madre su cui sono collegati i braccioli e gli ami.
La distanza tra un amo ed un altro sulla lenza madre è variabile a seconda della superficie marina coperta e della specie che si vuole insidiare.
Un tempo veniva utilizzato un cordino che dava non pochi problemi in quanto doveva essere lasciato asciugare al sole dopo ogni pescata. Oggi, con l’introduzione dei fili di nylon molte complicazioni sono stati eliminate: il palamito può essere usato in ogni stagione, sia di giorno che di notte, utilizzando una gran varietà di esche sia fresche che congelate e di facile reperibilità.
Il palangaro viene costruito in modi diversi per riuscire a pescare in zone diverse e specie diverse. I vari palangari si distinguono per la montatura pur mantenendo una struttura simile. Possiamo distinguere differenti tipi di palangaro.
- Palangaro per naselli (Merluccius merluccius)
Nel corso del presente progetto di ricerca, saranno censiti due tipi di palangari per i naselli e per entrambi l’esca utilizzata sarà la sarda. L’innesco sarà effettuato durante la cala, utilizzando una o più sarde per ogni amo. - Palangaro per cernie (Epinephelus marginatus)
Nel corso delle diverse uscite, il palangaro per cernie verrà impiegato su fondali di scoglio tra i 20 e i 50 m di profondità. L’innesco sarà costituito da sarde intere. - Palangaro per pesci sciabola (Lepidopus caudatus)
L’attrezzo verrà calato su fondali fangosi fra i 150 m ed i 300 m di profondità.Questo tipo di palangaro solitamente è lasciato in pesca per circa 3/5 h, e quindi salpato. Anche in questo caso l’esca sarà costituita da sarda. - Palangaro per pesce bianco
Solitamente questo attrezzo viene adoperato sporadicamente da addetti che operano con imbarcazioni di piccolo tonnellaggio o da pescatori sportivi. L’innesco verrà effettuato, in porto, utilizzando esche di vario tipo (seppia, oloturia, patella, cannolicchio).