Carlo Borlenghi e la sua fotografia
Carlo Borlenghi ha 19 anni, studia Ingegneria e passa il suo tempo libero in camera oscura sviluppando le foto delle regate degli amici o del suo paese natio, Bellano, sul Lago di Como. Non ha la minima idea che di lì a poco si ritroverà nel posto giusto al momento giusto e che la sua vita cambierà totalmente.
Uomo Mare Vogue lo vuole a bordo, lui sale con piacere e da quel momento in poi la sua bravura e le sue fotografie verranno riconosciute in tutto il mondo. Abbiamo intervistato il fotografo nautico Carlo Borlenghi.
Ci può raccontare degli inizi, come si è avvicinato alla fotografia?
È stato molto casuale. Studiavo Ingegneria, ma avevo come hobby la fotografia. Ero un fotografo amatoriale con la passione per la camera oscura, quindi sviluppavo in bianco e nero le foto del mio paese, del mio lago.
I miei amici che andavano in barca iniziarono a chiedermi: “Perché non vieni con noi e ci fai qualche foto?”. Alla fine accettai e partecipai anche a un paio di regate. La notte sviluppavo le foto e il giorno dopo cercavo di venderle ai regatanti per raccogliere un po’ di soldi per l’università. Ho continuato così per un po’ di tempo, finché un giorno un signore comprò 3 mie fotografie. Mi chiamò dopo un mese dicendomi che era il caporedattore di Vogue e che stava lavorando a una nuova pubblicazione dedicata al mare e voleva sapere se avessi voglia di lavorare con loro. A me non sembrava vero.
A 19 anni lavorare per Vogue – che, specialmente in quegli anni, era una rivista importantissima – era un traguardo gigantesco. Tutto cominciò da lì: iniziai a specializzarmi nelle foto di mare, a girare il mondo con loro, e diventai fotografo nautico.
Quindi scattava in pellicola all’inizio. Com’è stato il passaggio tra analogico e digitale per Carlo Borlenghi?
Ho vissuto bene il cambio da analogico a digitale. Ho preso “il treno giusto”, a differenza di tanti della mia generazione che erano molto restii e facevano fatica ad accettarlo. Per me, invece, la tecnologia andava seguita e così intorno al ’99 ho comprato la prima macchina digitale.
All’epoca costava quanto un bilocale sul Lago di Como, intorno ai 24 milioni, quindi dovevo scegliere se comprarmi un appartamento o una macchina digitale. È stata una decisione difficile, ma alla fine ho scelto la digitale ed è stato un successo incredibile. Da quell’anno in poi, infatti, ho iniziato a lavorare per tutti gli sponsor perché ero l’unico che poteva inviare le foto ai quotidiani in tempo reale. Con l’analogico non era possibile. Ad esempio, da Porto Cervo non c’erano mezzi per l’invio delle fotografie. Dovevi andare in aeroporto e consegnare i rullini a qualcuno, ma comunque in giornata non sarebbero mai arrivati al quotidiano.
Ricordo bene anche quando, durante la Coppa America, andavo da San Diego a Los Angeles in aeroporto con tanti rullini e una maglietta del Moro di Venezia e aspettavo il pilota con i suoi steward. Gli davo la maglietta e gli chiedevo se mi portavano i rullini in Italia. Non avevamo altri mezzi. Il digitale ha rappresentato un cambiamento radicale nella mia vita, in positivo. Tant’è che dopo ho sempre appoggiato qualsiasi nuova tecnologia e la stessa ha continuato a darmi frutti.
La fotografia è prima di tutto una passione. Come si riesce a mantenerla viva quando si trasforma in un lavoro?
Il segreto sta nel divertirsi anche se si fa come lavoro. È chiaro che si hanno richieste ben precise da parte dello sponsor, dell’ufficio stampa o di altri, ma bisogna, una volta esaudite le richieste formali del cliente, fotografare per sé, fare quella foto che vuoi tu e che non ti ha chiesto nessuno. Questa diventa la parte più divertente della giornata e non solo.
Alla fine queste si rivelano essere anche le foto che piacciono di più al cliente, ed è inutile spiegarglielo prima, quindi: esci, fai le foto che ti hanno chiesto e poi fotografa per te, il cliente sarà molto contento, ma soprattutto lo sarai tu. Questo spirito ha fatto sì che ancora oggi, dopo 45 anni, quando lascio la banchina con il gommone, o l’helipad con l’elicottero, tutti i problemi rimangono a terra e io vado a divertirmi.
Com’è la sua vita durante le regate? Ci può raccontare una giornata tipo di Carlo Borlenghi durante uno shooting del genere?
La giornata tipo è molto complessa e difficile. Con il digitale si scattano migliaia di foto, che vanno subito editate e inviate agli uffici stampa; poi, però, bisogna fare anche un altro editing, inserendo le didascalie per ogni foto, perché altrimenti è come mettere “il nulla” in archivio.
Tutto questo sarà utilissimo, ma porta via tantissime ore ed è un lavoro che al 90% faccio fare ai miei assistenti perché non ne avrei il tempo. Ad esempio, quando mi alzo la mattina e vado in banchina, i ragazzi finiscono l’editing della sera prima, poi durante la regata spedisco loro le foto scattate fino a quel momento, così hanno il materiale da mandare all’ufficio stampa per la fine della regata.
La sera, quando rientro, do loro le schede che vanno scaricate ed editate – lavoro che generalmente finiscono la mattina dopo – e così via. Non si finisce mai prima delle nove-dieci di sera e questa routine va bene per tre o quattro giorni, ma quando ci sono eventi come l’America’s Cup diventa molto più difficile e faticoso.
In primis, lei da fotografo è un osservatore. Guardando da fuori, ci può dire com’è cambiato il mondo della nautica rispetto a quando ha iniziato?
Ho vissuto un’evoluzione incredibile nella nautica. Sono entrato con le barche di Coppa America che erano in alluminio e ora volano. Dal punto di vista tecnico è cambiato tantissimo, ma per tutti i tipi di barche il progresso è stato enorme ed è avvenuto nel giro di pochi anni.
L’ambiente, invece, non per fare amarcord, era più bello una volta. Le persone prima dormivano in barca, in banchina era una festa continua, si mangiava tutti insieme, era bellissimo. Ora è tutto più distaccato, si dorme in albergo e ci si vede mezz’ora prima di uscire per la regata. Sono cambiati i tempi.
Vai a pagina 2 per leggere la seconda parte dell’intervista a Carlo Borlenghi.