Giorgio Maria Cassetta e un team d’eccellenza
Dietro questo nome c’è un team: sono in 7 nello studio di design di Roma e lavorano tutti verso un solo obiettivo. Giorgio Maria Cassetta non parla mai al singolare, perché la sua squadra è cresciuta con lui e senza di loro non sarebbe stata la stessa cosa. Ne va estremamente orgoglioso e questo è un punto fondamentale che ci tiene a precisare prima di ogni altra cosa.
Cassetta inizia a lavorare a 18 anni prima di concludere la sua formazione accademica e nel 2013 apre uno studio a Roma. La sua firma oggi è su tantissimi progetti di clienti importanti, anche oltreoceano, tuttavia rimane intenzionalmente sotto traccia perché crede fermamente che in questo settore contano le relazioni e la credibilità, più che la pubblica notorietà. Incontra il cantiere Benetti Yachts come primo cliente dello studio e dopo qualche anno vola fino a Miami portando con sé il suo bagaglio culturale, le sue esperienze, il suo stile inconfondibile con linee pulite, moderne ed eleganti. Imbarcazioni davvero belle, ma soprattutto funzionali al massimo, perché la qualità della vita a bordo è la stella polare di questo giovane designer.
Ci può raccontare come è nata questa passione per la nautica? Quali sono stati i suoi studi e quale sono state le prime esperienze nel settore?
Ho una passione per le barche sin da quando ero piccolissimo, già all’asilo disegnavo navi e barche. Ero un bambino a cui piaceva smontare le cose per cercare di capire come funzionassero. Questa passione non mi ha mai abbandonato, anche al liceo, appena avevo tempo tra una lezione e l’altra, continuavo a disegnare e sono sempre stato appassionato di design in generale.
L’interesse per la nautica in particolare viene sicuramente dal mio amore per il mare e per tutto ciò che riguarda l’ecosistema marino. Mi sono laureato in disegno industriale a Roma scegliendo un percorso di studi che fosse il più breve possibile. Il design nella nautica lo trovo molto interessante e ha una grande libertà creativa rispetto ad altre branche del design, che di solito sono più regolamentate o mancano di quel ragionamento tecnico/gestionale.
Ho iniziato a lavorare in questo campo prima della laurea: a 18 anni ho sviluppato il mio primo progetto per il restyling di un open di 11 metri. Finiti gli studi ho lavorato per lo studio Zuccon, poi per Vallicelli e anche come interior designer per conto mio, infine ho deciso di aprire il mio studio avendo la grande fortuna di avere Benetti come primo cliente.
Quanto è stato influenzato dal lavoro di sua madre, la designer Leticia Perez?
Moltissimo. Nella mia famiglia c’è sempre stata una forte passione per ciò che è l’espressione umana, della ricerca del bello in tutti i suoi campi: dall’arte alla musica, dalla manifattura di qualità al design. Mia madre è architetto d’interni, ma nella mia famiglia un buon 70% lavora o ha studiato in settori affini. Direi che è decisamente una cosa genetica!
Per i due yacht Alpha Spritz 102 e Tankoa T450 avete lavorato sugli interni. Un settore nuovo per il vostro studio, come mai questa scelta?
Per me gli interni sono una passione da sempre e ho lavorato sia nell’ambito delle ristrutturazioni di appartamenti, che ristrutturazioni di alto livello per palazzi e ville, questa è stata un’evoluzione naturale. In una fase di consolidamento iniziale in questa realtà, ho preferito far concentrare il mio team sullo studio di layout ed esterni, mentre ora che abbiamo più esperienze, risorse e un riconoscimento del brand, lavoriamo anche sugli interni.
Nel tempo sono poi arrivate numerose richieste dai clienti, che ci chiedevano di occuparci degli interni e da un paio d’anni stiamo gestendo questi progetti in maniera olistica. Lavorando su interni e esterni insieme riusciamo a dare ai progetti una coerenza che ci piace davvero molto! Quindi direi che la domanda giusta è: come mai non lo abbiamo fatto prima?!
In questo periodo a quale progetto state lavorando?
Posso solo dire che stiamo seguendo una ventina di progetti diversi che riguardano anche gli interni di imbarcazioni, tra 15 e i 85 metri, sia barche di produzione che barche custom.
Ci può parlare del suo ultimo lavoro per Benetti, l’FB284?
L’FB284 è nata su una piattaforma molto solida, fatta dalle sorelle FB276, 270, 274 e 278, ma per comprendere la sua storia iniziata con l’FB276 Metis che con i suoi 63 metri ha vinto il World Superyacht Awards 2020 per la categoria Yacht dislocanti tra 1.000 e 1.499 GT.
Nel 2015 in casa Benetti nasce questo “progetto sfida” di un’imbarcazione da mettere in speculazione. Per il cantiere è stato, ovviamente, un investimento non indifferente e l’unica certezza che poteva darsi era quella di costruire un prodotto che fosse appetibile per una grande fetta di mercato.
Contemporaneamente, però, questa scelta comporta un rischio intrinseco, che è proprio quello di creare un prodotto poco personale. Metis, al di là dei premi ricevuti, ha avuto un successo commerciale pazzesco e abbiamo avuto diverse trattative interessanti prima del cliente finale.
Dopo Metis FB276, ci sono state le altre tre sorelle (FB270 – 274 – 278) con un layout molto simile ma è nel 2019 che ci siamo seduti a tavolo con Benetti e abbiamo deciso, visto il grande successo di questo prodotto, che fosse arrivato il momento di dar vita ad un degno erede. L’FB284 è uno yacht di 67 metri sviluppato su sei ponti e non vuole essere un progetto estroso ma bilanciato, raffinato e moderno.
Abbiamo preso tutto ciò che avevamo di buono in termini di funzionamento del layout e bilanciamento dei volumi e abbiamo progettato una barca che avesse, da un lato un linguaggio stilistico nuovo pur rimanendo nel filone di una barca rassicurante dal punto di vista estetico, dall’altro abbiamo preso il layout e abbiamo ottimizzato in maniera maniacale qualsiasi funzione ci fosse, nell’ottica della qualità della vita a bordo.
E’ molto importante questo aspetto: i nostri clienti tornano da noi perché si trovano bene a bordo delle proprie barche.
E’ proprio questo il tratto distintivo dei vostri progetti? Che cos’è per lei lo yacht design?
La questione è un po’ filosofica, o meglio come ti vuoi posizionare rispetto a un mercato con una concorrenza fortissima e dei numeri molto limitati. La strada che abbiamo scelto quindi è quella di non essere i designer da sketch, veloce, che fa innamorare il cliente, quanto piuttosto cercare di essere dei consulenti di sviluppo a tutto campo.
Io trovo che il ruolo del designer sia cambiato negli ultimi 15 anni. Si è passati da una figura con un perimetro di intervento molto delineato, dove i cantieri stabilivano una serie di criteri e vincoli sia tecnici che formali e il designer interveniva con la sua estetica, ad oggi che invece è la figura che va a decidere in qualche modo com’è impostato il progetto nel suo bilanciamento generale.
Adesso succede che quando iniziamo un nuovo progetto, al 90% la richiesta che arriva sia dai privati che dai cantieri, è quella di essere proprio coloro che mettono insieme il concetto iniziale. Questo significa anche dare dei dimensionamenti di massima alla barca, come lunghezza, larghezza, altezza tra i ponti, etc.
Ovviamente quando ti trovi in questa condizione, al di là della difficoltà di dover appoggiarti a una serie di competenze tecniche che non sono proprie della tua figura professionale, ti trovi anche a dover considerare il progetto sotto una luce diversa, devi comprendere la complessità, invece che la semplice definizione del linguaggio stilistico. Il nostro modo di lavorare è questo, cerchiamo sempre di capire con il cliente quanto è bella la barca ma soprattutto quanto “funziona”.
Vorrei aggiungere che oggi gli yacht designer vengono spesso glorificati come degli artisti che hanno un’ispirazione, la mettono su carta ed esce fuori il prodotto. In realtà questi progetti sono lavori che durano dai 2 ai 5 anni. Sicuramente l’ispirazione c’è e la creazione di un linguaggio che prima non esisteva ha delle affinità con la sensibilità artistica, ma c’è tantissima interfaccia continua con il cantiere, gli operai, i fornitori etc.
La comprensione delle piccole problematiche ti permettono o non ti permettono di ottenere un determinato obiettivo, la conoscenza dei vincoli per assurdo ti permette di lavorarci intorno. Tra l’altro, negli ultimi 10 anni gli yacht sono cresciuti esponenzialmente a livello di complessità e richieste. Proprio quando queste iniziano a diventare molteplici su una singola barca e devono convivere una affianco all’altra, secondo me, è estremamente importante che il designer diventi un componente della squadrache cerca di trascinare tutti verso l’obiettivo di un prodotto che parli lo stesso linguaggio in tutti i suoi aspetti, invece di essere l’artista che dirige affinché le cose succedano.
Quello che oggi è veramente distintivo di uno yacht designer è proprio un approccio profondo alla comprensione del progetto sul quale si sta lavorando.
Qual è stato il suo progetto più significativo?
Non riesco a dirne uno in particolare! Posso però affermare che la collaborazione che abbiamo ormai da 4 anni con Cigarette Racing ci sta dando tantissime soddisfazioni. Anche se non sono le barche più grandi disegnate, anzi sono le più piccole, sono imbarcazioni che hanno una complessità tecnica mostruosa.
Il nostro primo progetto per Cigarette Racing è stato per la loro ammiraglia. Un center console di 18 metri da 2400 cavalli con 6 motori fuoribordo e 85 miglia/orarie di velocità massima, per non parlare del livello di qualità di rifiniture, qualità della navigazione, comfort di bordo e sicurezza richiesti.
Cigarette è tra i cantieri che costruiscono con più maniacalità in assoluto, potrei definirli tra i più attenti al mondo! Questo ovviamente ha richiesto da parte nostra un’attenzione assolutamente non usuale allo sviluppo del prodotto e per far si che questo funzionasse. Abbiamo dovuto fare un mix di culture e di esperienze tra tutte le parti, cioè noi come designer, il cantiere come produzione e brand e lo studio di ingegneria.
E’ stata un’esperienza molto significativa, perché dovete immaginare la differenza polare che ci può essere tra un cantiere di Miami con un certo tipo di cultura di barche veloci e vistose e uno studio di design di Roma che ha disegnato barche lente, grandi e lussuose. Dal fatto di aver unito sensibilità quasi radicalmente opposte, è nata una collaborazione estremamente fattiva ma anche un’amicizia personale.
Qual è stata la richiesta più strana che le è capitata in questi anni di carriera?
Una cosa particolarmente divertente è stata quando un armatore mi ha chiesto di progettare una barca, tra l’altro molto grande e quindi soggetta a regolamentazioni particolarmente stringenti, senza locale timoneria. Era particolarmente snervato dall’idea che questo locale timoneria fosse in una posizione dove di fatto si gode di un panorama quasi totale, in una posizione centrale. Non riusciva proprio a capire perché non si potesse fare una barca senza locale timoneria.
Questo è successo 5 anni fa, quindi non c’erano ancora una serie di soluzioni tecnologiche che oggi rendono un’idea del genere non completamente folle. Adesso sicuramente se ne può parlare, ci sono navi autonome o comunque dove il capitano può stare chiuso in un bugigattolo da qualche parte.
Anni fa però, non era minimamente concepita un’idea del genere. Quindi questa cosa ci ha portato a fare un’indagine molto estesa sulle varie integrazioni della timoneria, sia per creare un ambiente polifunzionale, sia per posizionarla in luoghi inusuali.
E’ stata una cosa divertente. Peccato che poi il progetto ha presentato altre difficoltà del cliente ed è rimasto incompiuto.
Che consiglio darebbe a chi vuole intraprendere la carriera da yacht designer?
Purtroppo la formazione universitaria in tale campo, in Italia ma come da altre parti, è “poco codificata”.
Quindi essendo un mondo poco approfondito dal punto di vista dell’istruzione, il mio consiglio è quello di approcciare allo studio con una materia tecnica che dia una base di comprensione dei disegni, di come si rappresentano le cose su carta, lo spazio, la prospettiva, le dimensioni.
Potrebbe essere, per esempio, una laurea in disegno industriale o architettura, ma soprattutto il mio consiglio è quello di completare questa formazione in un tempo più rapido possibile e immergersi quanto prima in una realtà professionale. La vera formazione sono quei 5/10 anni di lavoro sul campo, dove ti confronti con problemi reali che nessuno ti avrà raccontato prima.