La bellezza si sussurra: intervista ad Antonio Rodriguez
Antonio Rodriguez, architetto e designer, collabora dal 1999 con Matteo Thun, con cui è entrato subito in sintonia. I due condividono la stessa visione del design: togliere ma non impoverire; eliminare piuttosto che aggiungere. La bellezza risiede nella delicatezza, nell’armonia, nel lusso sobrio, mai ostentato.
E dietro questa concezione del design c’è anche l’attenzione alla durabilità: se un oggetto è bello di per sé e non segue i trend del momento, non passerà mai di moda. Un concetto che va di pari passo con la sensibilità ambientale, che ha sempre guidato Antonio Rodriguez e Matteo Thun e che ora li ha portati a collaborare con Azimut Yachts per la linea Seadeck: ecosostenibile e semplice, ma occhio a dire minimalista!
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Lei collabora con Matteo Thun dal 1999, anno in cui è entrato a far parte dello Studio Matteo Thun & Partners. Com’è iniziata la sua carriera?
Ho studiato all’Università Politecnica di Valencia, città dove poi ho aperto con degli amici uno studio di Product Design. In seguito, però, ho vinto una borsa di studio per una nuova tesi a Milano all’Istituto Europeo di Design e una volta terminato il percorso sono rimasto qui. Ho iniziato a collaborare con il designer e architetto Naoki Matsunaga, con cui abbiamo lavorato a progetti importanti, per realtà italiane e giapponesi, come Hitachi e Toshiba. Ho collaborato anche con il Taipei Design Center. Poi un mio carissimo amico che lavorava nello Studio Thun mi ha suggerito di raggiungerlo perché secondo lui l’ambiente lavorativo era perfetto per me. Ho fatto il colloquio anche con Matteo e ci siamo trovati subito, così abbiamo iniziato a lavorare insieme, dopo un paio di anni abbiamo creato la società Matteo Thun & Antonio Rodriguez.
L’approccio del vostro Studio è ZERO Design. Come lo spiegherebbe?
Sì, ZERO Design è il nostro approccio al design, un po’ la sintesi del nostro modo di lavorare nell’architettura, nel product e nell’interior design. Cerchiamo sempre di togliere e mai di aggiungere, di realizzare lavori molto semplici, accostabili alla visione giapponese. Ma il nostro non è minimalismo, ci tengo sempre a sottolinearlo: credo che il minimalismo tolga un po’ l’anima dagli oggetti, mentre noi vogliamo che i nostri lavori abbiano sempre un’anima. E poi togliere non implica piattezza o impoverimento, piuttosto semplicità. Quando analizziamo un ambiente, uno spazio o un oggetto, ci chiediamo sempre: “Come possiamo ordinarlo, cosa possiamo eliminare senza rinunciare alla sua essenza?”.
La sua filosofia di design è sempre stata questa?
Credo che questo dovrebbero giudicarlo gli altri. Personalmente penso di aver sempre avuto questa filosofia, quindi direi di sì, ma ribadisco che alla fine sta agli altri dirlo, perché vedono i miei progetti dall’esterno. Quando andavo all’università, i professori e i miei compagni, però, sottolineavano sempre quanto fossero puliti i miei lavori.
Un altro principio fondamentale suo e di Matteo Thun è la sostenibilità. Quando nasce questa sensibilità ambientale e come si traduce nel design?
La nostra consapevolezza ambientale è venuta da sé, nel senso che è da sempre parte dello studio: abbiamo sempre voluto usare materiali molto naturali e il rapporto con la natura c’era già nei lavori degli anni ’90. Adesso questa visione si è evoluta: dalla ricerca del rapporto con la natura alla necessità di proteggerla, dall’utilizzo di materiali naturali al comprendere come preservarli. Oggi è di questo che abbiamo bisogno. Quindi, penso sia stato un percorso molto lineare e naturale. Il nostro approccio ai progetti, togliere e semplificare, probabilmente ci aiuta anche a essere più sostenibili perché quando realizziamo un oggetto meno modaiolo e più evergreen, dura di più nel tempo, molto di più, e se dura di più allora è più sostenibile, perché non si butta via una volta passato di moda. A me non piace proprio il concetto del “buttare”, preferisco di gran lunga quello del “riparare”. Questa mentalità deve tornare per noi più grandi e deve nascere per le nuove generazioni, che invece non l’hanno mai avuta, semplicemente perché, per fare un esempio, noi andavamo dal calzolaio a far riparare le scarpe, mentre i giovani buttano le scarpe rotte e ne comprano altre. Adesso dobbiamo ricominciare ad acquistare oggetti di qualità superiore, che possiamo riparare.
Recentemente avete annunciato la collaborazione con Azimut Yachts per la nuova gamma Seadeck. Cosa rappresenta questo progetto?
All’inizio c’erano il concetto di barca sviluppato da Alberto Mancini, un’idea di una barca molto aperta verso il fuori, e la volontà di creare uno yacht più sostenibile nel mercato. Sia il concetto base di Alberto sia i brief iniziali di Azimut si sposavano perfettamente con la nostra filosofia: le nostre architetture hanno sempre avuto una forte connessione tra indoor e outdoor; quindi, è stato molto naturale per noi. E poi, ovviamente, anche progettare una barca iper-sostenibile era molto nelle nostre corde. A quel punto, ci siamo impegnati moltissimo nella ricerca di materiali che fossero sostenibili, riciclati e riciclabili a loro volta.
Ad esempio, abbiamo realizzato il pavimento esterno, normalmente in teak, con il sughero: il teak è difficilmente reperibile, non è a chilometro zero perché viene dell’Indonesia ed è molto caro; mentre il sughero è un materiale mediterraneo, dato che la maggiore produzione è tra Spagna e Portogallo, al sole si scalda molto meno rispetto al teak, quindi ci si può camminare scalzi senza bruciarsi, ed è molto più economico e sostenibile perché cresce più velocemente. Abbiamo applicato questo tipo di processo a tutti i materiali e i tessuti a bordo. Certo, su una barca gli spazi sono molto ristretti e lo storage è limitatissimo, quindi abbiamo dovuto effettuare anche un grande lavoro di pulizia, anzi di riduzione direi, in linea con la nostra visione del design. Togliere, togliere e togliere, ma senza andare a toccare la bellezza e il bello, che sono intrinsechi nel design italiano. È ovvio che parliamo sempre di lusso perché la barca è un lusso e tale deve rimanere, ma non deve essere ostentato.
Lavorare al progetto di un’imbarcazione è differente rispetto a lavorare a un progetto di design “sulla terraferma”. Quali sono le differenze più grandi che avete trovato?
Soprattutto gli spazi, che sono veramente ridotti, se paragonati anche agli alberghi che spesso progettiamo. D’altra parte, l’impatto non è stato così forte perché il nostro studio ha quasi 40 anni di esperienza nella progettazione di case private, alberghi a 4 e 5 stelle, camping, case prefabbricate, case mobili; quindi, abbiamo già realizzato tante cose molto diverse tra loro. Quello che non cambia è l’attenzione che va posta allo spazio: bisogna far sì che chi lo occuperà lo viva al meglio. Anche negli alberghi gli spazi sono contenuti e i costi di realizzazione sono controllatissimi, quindi sotto questo punto di vista progettare uno yacht non è stato molto differente: spazi ridotti, ma allo stesso tempo lussuosi, mentre di solito si crede il contrario, si collegano subito tanto lusso e tanto spazio. In questi casi, invece, è quasi l’opposto. È stato un lavoro molto interessante, anche se non facile. Al contrario, il rapporto con la proprietà è stato veramente semplice.
C’è qualcosa che la collaborazione con Azimut Yachts vi ha fatto scoprire?
Probabilmente l’aspetto di cui parlavo ora: lavorare in spazi ridotti, quasi sacrificati. Non abbiamo lavorato a un megayacht privato di 110 metri: Seadeck è un progetto di nautica prêt-à-porter, nel senso che l’armatore può modificare qualche cosa sul proprio modello, ma poco. È stato interessante realizzare questa linea di barche perché non è stato come lavorare alla casa privata o allo yacht privato, in cui puoi fare ciò che vuoi tu e ciò che vuole precisamente il cliente; piuttosto, è più vicino al lavoro che si fa con la catena di hotel. Altri aspetti stimolanti riguardano il peso, i materiali, l’attenzione agli spigoli. Si tratta di una progettazione molto più estrema. Ci sono materiali che solitamente si possono utilizzare sulla terraferma, ma che non sono contemplabili in barca: ad esempio, un lavabo realizzato completamente in marmo può essere sfruttato senza problemi in hotel, ma non in barca perché peserebbe troppo. Queste grandi differenze hanno reso il lavoro estremamente interessante.
Secondo lei quale sarà il cliente tipo della linea Seadeck?
Il target a cui si rivolge questo progetto è differente: si tratta di un lusso più consapevole, più “conscious”. Chi acquisterà un Seadeck lo farà perché ricerca un gusto un po’ diverso, più sobrio, e un lusso meno ostentato.
MATTEO THUN & ANTONIO RODRIGUEZ
www.matteothun.com