Shibumi: vivere in barca è facile? No. È possibile? Sì.
Sara è una donna forte e senza paura di reinventarsi. In mezzo al mare, ogni giorno c’è da reinventare sé stessi e i propri programmi, e lei lo sa bene: in barca, su Shibumi per essere precisi, ci vive con suo marito, i loro tre figli e una cagnolona. Una famiglia che, forse, più delle altre è una squadra e che si è data la possibilità di vivere la vita come davvero sognava.
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Shibumi ha tante sfumature: oltre a essere una barca a vela di 17 metri, è anche un progetto di vita e per le scuole, è ricerca scientifica e tanto altro. Come lo racconteresti a chi non lo conosce?
Shibumi è innanzitutto un cambio di vita. Nasce non dall’insoddisfazione o dalla frustrazione, ma dalla curiosità di vivere una vita differente, perché di vita ne abbiamo una sola. Con mio marito ci siamo guardati in faccia e ci siamo detti che non potevamo aspettare i soldi della pensione per realizzare i nostri progetti, ma che dovevamo giocarci in quel momento quello che avevamo.
Questa scelta si è declinata però anche in tanti progetti diversi. L’avevate preventivato o è accaduto naturalmente con l’andare avanti della “seconda vita” a bordo di Shibumi?
È nato tutto un po’ per caso. C’era sicuramente la voglia di condividere questa nostra esperienza. All’inizio lo abbiamo fatto con tanta umiltà, poi passo dopo passo è cresciuta l’attenzione verso di noi, anche perché la nostra è diventata una notizia a livello nazionale. Probabilmente anche il periodo in cui ci trovavamo – piena pandemia – ha influito. Nulla di ciò che è accaduto era programmato: purtroppo, abbiamo dovuto cambiare i nostri piani originali, rimanendo bloccati alle Baleari per 8 mesi a causa del Covid.
Invece di arrenderci e abbandonare il progetto, ci siamo chiesti cosa avessimo effettivamente tra le mani. Avevamo la conoscenza scientifica di mio marito, la mia creatività e i bambini. Quindi, con la collaborazione dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare abbiamo realizzato una serie sull’energia sostenibile; poi un’altra sui raggi cosmici. Adesso abbiamo in atto dei progetti scientifici sulle microplastiche con il CNR. Infine, andiamo nelle scuole interessate ai nostri interventi e alla nostra divulgazione.
Questa attenzione alla sostenibilità e all’ambiente è nata con il cambio di vita?
Abbiamo sempre avuto un’attenzione alla sostenibilità e all’ambiente. Anche in vacanza era evidente lo stato del cambiamento climatico, il livello di innalzamento dei mari. Certo, però, quando in mare ci vivi, capisci che le tue abitudini devono cambiare. Faccio un esempio banale: quando fai la doccia, in barca vedi immediatamente la schiuma in mare; invece, a casa il problema non te lo poni perché fai la doccia, la lavatrice, la lavastoviglie e non vedi dove va a finire quell’acqua. Magari si pensa che l’inquinamento non esista solo perché non si vede; in barca non è così: se sei consapevole di star usando un prodotto non inquinante o, almeno, non così impattante, sai che stai contribuendo a un mondo migliore.
Noi abbiamo solo pannelli solari e non usiamo l’elettricità dell’isola dove siamo adesso, per esempio. L’energia che usiamo è la nostra e ogni cosa a bordo – non manca nulla: lavatrice, microonde, phon, estrattore, frullatore e via dicendo – è alimentata solo con energia solare ed eolica. Beviamo l’acqua del mare dissalata, che usiamo anche per lavarci; quindi, veramente abbiamo un impatto zero sull’ambiente.
La passione per la nautica come nasce? Tu e tuo marito Stefano l’avete scoperta insieme oppure uno ha portato in mare l’altro?
Mio marito naviga da più di vent’anni oramai. Ha iniziato con le scuole di vela di Les Glenanes, in Bretagna, quindi ha cominciato conoscendo l’oceano. Noi due ci siamo incontrati per caso durante una vacanza in barca a vela in Grecia; per me era la prima esperienza. Non era una vacanza con skipper, hostess, all-inclusive, piuttosto tutto il contrario: molto spartana. Mi sono subito adeguata e ci siamo conosciuti senza le sovrastrutture che la società a volte impone: ti conosci per quello che sei veramente, in ogni cosa, da quello che mangi alle abitudini quotidiane. Abbiamo avuto la possibilità di incontrarci in una circostanza rara, che ci ha permesso di conoscerci a fondo da subito. E da lì non ci siamo più lasciati. Al nostro matrimonio c’era uno striscione che diceva: “Sara e Stefano, uniti nel bene e… nel mare” ed è così, stiamo insieme da più di vent’anni. Pian piano ho imparato la navigazione grazie a lui. Non ho mai seguito corsi di vela e non ho la patente, ma navigando da vent’anni ho appreso qualcosina, anche se in mare c’è sempre da imparare.
Tornando invece a Shibumi, siete presenti anche nelle scuole. Quali temi trattate?
Gli interventi nelle scuole riguardano la sostenibilità, gli esperimenti a bordo di Shibumi, la sostenibilità energetica, l’inquinamento, le plastiche e le microplastiche. Adesso abbiamo il progetto che ti dicevo con CNR – ISMAR, l’Istituto di scienze marine, sui pellet: un nuovo tipo di microplastiche su cui finalmente si sta ponendo un po’ di attenzione. Noi raccogliamo i dati in un database e li inviamo ai laboratori di ricerca.
All’Università Cattolica, invece, abbiamo parlato di progettualità: come si progetta un viaggio come il nostro, come si gestiscono gli imprevisti, come trovare il piano B e impostare gli obiettivi finali. Qualunque sia il progetto che si affronta, ci sono sempre dei punti in comune. Noi li abbiamo applicati alla nostra vita di bordo, ma sono applicabili a qualsiasi situazione. Abbiamo fatto anche degli interventi nelle aziende: ad esempio, siamo stati da Ambrosetti per parlare di sostenibilità e anche di team, perché noi nel nostro piccolo siamo un esempio di gestione di un team aziendale.
Su quali tematiche riscontrate più curiosità da parte delle nuove generazioni?
I giovani sono più incuriositi dal cambio di vita. La percezione che ho su come venga accolta la tematica ambientale è un po’ quella del ‘che brutto l’inquinamento, ci sono i rifiuti, peccato che il mare è messo così’, ma poi finisce lì. È un tema ridondante che non cattura l’attenzione. Ma non è sempre così: puoi anche trovare il ragazzo che ha il terrore, la fobia, di come sarà il mondo domani.
La curiosità maggiore riguarda come facciamo a vivere a bordo di Shibumi, a convivere in ambienti stretti, come ci laviamo, come e cosa mangiamo, come riusciamo a vivere con così poco; insomma, sono più attratti dalla vita di tutti i giorni. Rimangono un po’ basiti quando scoprono che utilizziamo l’acqua del mare desalinizzata per bere e lavarci oppure l’energia solare per far funzionare la consolle di gioco e ricaricare il cellulare. Per loro è strano che, se è nuvoloso e non c’è vento, non si possa giocare e fare tante altre cose normali, perché semplicemente non c’è corrente. Ci dobbiamo adeguare ai ritmi e alla situazione che troviamo fuori, invece di rientrare a casa e avere sempre la corrente disponibile.
Tra le varie attività avete creato anche lo Shibumi FloatingLab, cos’è?
Shibumi FloatingLab è un laboratorio galleggiante in cui convergono progetti di ogni tipo. Da quelli con l’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare, di cui abbiamo il patrocinio, è nata la serie in cui i nostri figli spiegano ai loro coetanei come funzionano la sostenibilità a bordo, i pannelli solari, il generatore; è andata in onda anche su RaiGulp. Poi a bordo abbiamo un rilevatore di raggi cosmici e i ragazzi hanno realizzato un’altra serie in cui spiegano cosa sono e da dove arrivano, abbiamo effettuato esperimenti sotto le grotte, dentro i vulcani. Questa estate siamo arrivati sulla cima di un vulcano, a quasi 4.000 metri di altezza, per capire come cambiano i raggi cosmici e a cosa servono.
Un progetto un po’ più “sociale”, invece, è quello con uno studio di psicologi e logopedisti (Argo, centro per la persona), che si è interessato alla nostra storia e ha “studiato” come vivono i ragazzi di età completamente diverse – il piccolino quando siamo partiti aveva 3 anni e mezzo, ora ne ha 6; la grande ora ne ha 11 e ne aveva 8 e mezzo; il grande aveva 11 anni e mezzo e ora ne ha 14 –. Hanno trovato interessante come cambia psicologicamente la visione dei bambini durante questo viaggio. Ora con loro realizziamo dirette tematiche sulla psicologia e su situazioni che possono capitare a qualsiasi famiglia. Ci sono circostanze che stiamo affrontando a bordo, ma che si possono verificare anche a terra: adolescenza, difficoltà di linguaggio, scuola, per citarne alcune.
Com’è vivere in barca, anche rispetto a una vita, diciamo, “normale”? Quali sono le difficoltà che avete dovuto imparare a gestire?
Vivere in barca è durissimo. Se non fosse così duro, tutti lo faremmo: non esistono bollette, hai solo (eventualmente) le spese del porto, ma in alcuni sono veramente irrisorie. Sicuramente è più economico che vivere in un appartamento in città. Ciononostante, è dura perché bisogna adattarsi agli ambienti stretti e all’umidità; se non si ha un impiego fisso, bisogna essere continuamente alla ricerca di un lavoro, perché le spese comunque ci sono. Se in barca si rompe qualcosa, le cifre da spendere sono maggiori di quelle di una macchina o un altro mezzo: ha gli impianti elettrici e idraulici, il motore, la strumentazione, bisogna sempre tenere conto di tutto. Tra l’altro, abbiamo tre figli e viviamo con un cane a bordo, quindi è ancora più complicato. Però si fa, perché svegliarsi la mattina e decidere di partire è una libertà che poche situazioni al mondo ti offrono. Ovviamente, bisogna anche saper incastrare perfettamente il lavoro con le esigenze dei figli e con le amicizie.
È un continuo rimettersi in gioco, smontarsi e rimontarsi, e non avere certezze: con la vita in mare non si riesce a prendere decisioni o a rispettare piani, perché ci sono imprevisti che, in quanto imprevisti, non sono programmabili. Gestire all’ultimo secondo un contrattempo o un cambio di programma è psicologicamente pesante. È un costante reinventarsi e rivedere i piani ed è molto faticoso in un mondo in cui le persone hanno continuamente bisogno di certezze e di sicurezze. Ci sono persone che hanno già prenotato le vacanze che faranno tra 3 mesi, mentre a me se chiedi dove sarò la settimana prossima probabilmente non so rispondere, non riesco a fare programmi che vanno al di là della settimana o al massimo, in alcuni periodi, del mese.
Purtroppo, si ha questa idea che vivere in barca sia una figata perché vuol dire essere sempre in vacanza: a me ha un po’ stancato questa narrazione. Probabilmente, la gente è abituata a concepire la barca come appannaggio dei ricchi o come un mezzo da vacanza, in cui si rimane tutto il giorno stravaccati al sole, ma non è così. L’altro giorno mi confrontavo con la mia amica francese che è arrivata qui un mese fa: lei ha 4 figli a bordo, che hanno la stessa età dei miei e stavamo proprio dicendo che la gente non riesce a capire che sulla barca ci possono essere anche persone che non sono ricche, ma che vogliono solo vivere una vita diversa.
Invece quali sono i lati positivi che non vi fanno sentire la mancanza della vita a terra?
Per prima cosa, direi la possibilità di avere sempre vicini nuovi. Penso alla quantità di persone diverse che ho conosciuto in questi (quasi) 3 anni: non avrei mai avuto la possibilità sulla terraferma di conoscerne così tante. A terra fai sempre la stessa vita, bene o male vedi sempre le stesse persone. Ovviamente non è così per tutti, non voglio generalizzare, però spesso si va sempre allo stesso bar per fare colazione, si va sempre alla stessa palestra, si esce sempre con lo stesso gruppo di amici, e così via. Qui, invece, ci sono persone che si fermano una settimana, altre 3 giorni e altre ancora 6 mesi, e questo ti dà la possibilità di venire in contatto con trascorsi ed esperienze di vita totalmente diversi. Persone che arrivano da tutto il mondo: ricchi, poveri, giovani, anziani.
Questo sicuramente è l’aspetto che mi piace di più e poi, ovviamente, anche la possibilità di prendere e partire. Ad esempio, questo weekend penso che andremo a Fuerteventura: anche se ci siamo già stati, lasciare gli ormeggi ed essere liberi di andare dove si vuole è impagabile.
Com’è la vita a bordo di Shibumi con i bambini? Quali consigli dareste a chi vuole passare non per forza tutta la vita, ma un periodo in barca con i propri figli?
Quando porti i figli a bordo, devi decidere se essere un genitore egoista o un genitore attento. Ci sono genitori che vogliono fare il giro del mondo in due anni e partono, non ha importanza l’età dei figli: si devono adeguare. Ne abbiamo incontrati di genitori così. Il loro piano era uno: volevano vivere quell’esperienza e i figli dovevano seguirli.
Poi ci sono i genitori un po’ più coscienziosi, che ponderano le loro scelte in base alle esigenze di tutti. Io credo che rientriamo in questa categoria: quando siamo partiti avevamo l’appoggio di tutti. I miei figli erano esaltati, non abbiamo scelto noi da soli, portandoli al seguito. Quando poi abbiamo chiesto loro se volessero proseguire, ci hanno risposto di no, perché al momento sono felici qui. Quando si stuferanno di questo posto, cambieremo. Quindi è un continuo incastrare le esigenze del piccolo, del medio e del grande, e anche le esigenze lavorative. Lavorare da una barca e con 3 figli a bordo non è semplice: non si ha la stessa concentrazione che si ha in ufficio.
A chi vuole intraprendere questa avventura, consiglio di farlo finché i figli sono ancora alle elementari: dopo diventa più difficile da gestire emozionalmente. Indubbiamente, ho tolto qualcosa ai miei figli della loro vita ‘normale’; contemporaneamente, però, sto dando loro molto altro: esperienze che nei libri non trovano e che a terra non avrebbero vissuto. Per esempio, mia figlia sta imparando il francese perché sono due settimane che passa il tempo solo con una bambina francese: parlano un po’ spagnolo, un po’ italiano, un po’ inglese e ultimamente la sento sempre più spesso dire parole in francese. È sicuramente un’esperienza anche molto positiva per i bambini.
Avete vissuto imprevisti e affrontato nuove sfide. Vi è cambiata un po’ la prospettiva rispetto a queste evenienze con il cambio di vita?
Diciamo di no. Nel senso che siamo sempre stati una famiglia molto positiva, io e mio marito abbiamo sempre voluto passare ai nostri figli il messaggio che una soluzione c’è sempre, bisogna solo trovarla. La fatica sta nel cercarla e trovarla, ma c’è sempre. Il segreto sta anche nel vedere il piano B non come un ripiego, ma come un’opportunità; questa frase è diventata uno dei miei motti. Il piano B può aprire a nuove possibilità, a nuove esperienze, può essere un arricchimento. Questo ci ha dato la carica in questi tanti anni: il nostro progetto per questa vita è nato in realtà quasi 10 anni fa, poi ci sono stati imprevisti, cambi di programma, battute d’arresto, ma lo abbiamo nel cuore da molti anni. L’estate scorsa ho fatto un intervento al TEDx di Ancona e ho parlato proprio di come abbiamo superato questi imprevisti.
Pur non potendo avere un vero e proprio piano a bordo di Shibumi, cosa vorreste fare nel 2023?
La serenità dei miei figli avrà la meglio: se vedremo che sono sereni e felici qui rimarremo qui; se vedremo che iniziano non essere più felici in questo posto, considereremo verso novembre di spostarci, valutando, ovviamente, la situazione economica e lavorativa che è basilare. Quest’estate navigheremo, probabilmente andremo alle Azzorre, però anche in questo è il meteo che deciderà per noi, quindi non si possono fare programmi certi. Abbiamo dei pensieri di navigazione: dalle Canarie verso Madeira e verso le Azzorre, ma in barca c’è sempre il “però”. Il messaggio che vorrei che passasse sempre quando faccio interviste è che cambiare vita è possibile, cambiare vita in barca è possibile, però è faticoso. È facile? No. È possibile? Sì.